Omelia della celebrazione vespertina “nella Cena del Signore” (rito ambrosiano) 9/4/2020
(Gn 1, 1 – 3, 5. 10; Mc 14, 38. 41. 42; 9, 31; 1 Cor 11, 20-34; Mt 26, 17-75)
Giona è segno profetico della morte e risurrezione di Gesù per il suo essere stato inghiottito dal pesce ed esservi rimasto dentro per tre giorni e tre notti; ma Giona è anche segno profetico per noi, “radunati” in modo straordinario a condividere e celebrare questa Pasqua con il Maestro.
A Giona viene affidata una missione precisa, alla quale il profeta si sottrae (e all’inizio non sappiamo nemmeno perché!), c’è l’intervento misterioso di Dio che blocca la sua fuga e predispone un “piano di salvataggio” per poi riproporgli le stesse parole di invio. Vedo nella figura di Giona me stesso e tanti di noi: pensiamo di sapere e di conoscere quel Signore che ci affida una missione, una testimonianza; ma messi di fronte alle esigenze di questa Parola che conta, questa Parola impegnativa (per noi e per il nostro prossimo) noi spesso ci sottraiamo, ci diamo alla fuga, non pensiamo di essere in grado di compiere quanto indicato: il comandamento dell’Amore se è così semplice da comprendere, da capire, è difficile da vivere davvero, vivere credendoci, vivere in profondità. Ma c’è qualcosa che ci blocca, che arresta il nostro allontanarci dalla missione che ci è affidata, dalla testimonianza da dare, e così questo ci spiazza, ci pone in una condizione di insicurezza: sappiamo davvero chi siamo? Sappiamo davvero chi è il Signore per noi? Sappiamo davvero che cosa fare? Il tempo che viviamo, tutti insieme, è il tempo della prova: anche Papa Francesco ci ha ricordato che l’umanità intera condivide lo stesso destino perché siamo tutti sulla stessa barca. Sentiamo nostre le parole di Giona che, dal ventre del pesce, invoca quel Signore dal quale era fuggito, riconoscendolo come unica vera salvezza.
E questa unica vera salvezza è indicata con parole chiare, senza troppi “fronzoli” da Paolo che, nella sua prima lettera ai Corinzi, raccomanda questa trasmissione nella fede e della fede: “Fate questo in memoria di me”. C’è un fare che non è nostro, non è a nostra disposizione e ci viene donato, consegnato perché a nostra volta ne facciamo dono e, da esso, noi stessi diventiamo dono. “Fate questo”: il memoriale del dono e del sacrificio di Gesù che ha preso sul serio il comandamento dell’Amore, testimoniando la sua fedeltà al Padre nel dare se stesso e attraversando la passione, la morte perché arrivasse alla risurrezione. Noi tutti ci nutriamo del corpo e del sangue di Gesù morto e risorto: “Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga“. Anche qui, anche ora, noi annunciamo la Sua morte e attendiamo la Sua venuta nella gloria. Quanto abbiamo bisogno che questa attesa sia compiuta!
“«Andate in città da un tale e ditegli: “Il Maestro dice: Il mio tempo è vicino; farò la Pasqua da te con i miei discepoli”». I discepoli fecero come aveva loro ordinato Gesù, e prepararono la Pasqua“. Mai come quest’anno mi sembra, ci sembra di aver preparato la Pasqua; mai come quest’anno mi sembra, ci sembra di vivere la prima Pasqua, quella familiare, quella “casalinga”, quella tra amici e fratelli; una Pasqua piena di trepidazione e di attesa, una Pasqua dove Gesù è “di casa” e si offre a noi come dono rinnovato del Padre, un dono che chiede di essere accolto, compreso, amato, fatto nostro. Questo dono di Gesù, questo donare se stesso è impegnativo per ciascuno di noi: mai come ora sento, sentiamo il bisogno di accogliere questo dono d’Amore, questo dono che interpella e verifica la nostra vita e la nostra fede. Abbiamo preparato la Pasqua, l’abbiamo preparata nel più intimo del nostro cuore, l’abbiamo preparata quasi camminando con Gesù nel deserto lasciandoci attraversare dalle tentazioni, dalle prove (che non sono ancora finite): come di discepoli di allora, anche noi però rischiamo di non comprendere, non capire, non vegliare, rischiamo di tradire il dono che Gesù fa di se stesso a ciascuno di noi. E allora, per sconfiggere tutto questo (incomprensione, rilassatezza, freddezza, incapacità all’ascolto profondo e all’accoglienza del dono di Dio) non possiamo far altro che ripetere, con il Maestro, fissando lo sguardo su di Lui: «Padre mio, se questo calice non può passare via senza che io lo beva, si compia la tua volontà». Che la mia volontà, che la nostra volontà, Signore Gesù, sia guidata solo da Te, dal tuo santo Spirito, dalla tua Presenza Reale, qui ed ora. Amen.
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