Il Vangelo della Domenica con Albino Luciani: 13 febbraio 2022

“Il Vangelo della domenica con Albino Luciani”

Domenica 13 febbraio 2022: VI del tempo ordinario (C)

(Geremia 17, 5-8; Salmo 1; 1Corinzi 15, 12. 16-20; Luca 6, 17. 20-26)

Riprendiamo il commento alle letture della domenica da questa IV del tempo ordinario di rito romano, ciclo C dell’anno liturgico.

La prima lettura ci propone delle parole forti e dirette del profeta Geremia, che troviamo al capitolo 17 dell’omonimo libro. Il brano è chiaramente diviso in due parti, come se fossero due facce antitetiche di una stessa medaglia: da una parte la maledizione dell’uomo che confida in un altro uomo, dall’altra la benedizione dell’uomo che, invece, confida nel Signore. Da dove viene questa riflessione? Geremia vive il tempo della speranza delusa: non basta la riforma di Giosia a scongiurare l’infedeltà del popolo d’Israele e a farlo scivolare ora a stringere l’alleanza con l’Egitto, ora invece con l’Assiria, alleanze straniere che dimenticano, invece, l’unica vera Alleanza che conta: quella con il Signore Dio che raduna e da’ l’identità al popolo, chiamato appunto popolo di Dio. Per farlo Geremia prende come esempi gli arbusti e gli alberi: i primi, come il tamarisco nella steppa, non cresce e rimane dimorante in terra arida, senza vita; i secondi, come il salice piantato lungo i corsi d’acqua, cresce e non si da pena e non teme nemmeno la siccità, continuando ad attingere acqua e a dare frutti. Così è la vita di fede dell’uomo benedetto che confida nel Signore: “il Signore è la sua fiducia”. Occorre tornare alla fedeltà di Dio e a coltivare una vita di fede interiore, spirituale, che si abbevera all’acqua di Dio, inesauribile.

Il salmo 1 è la risposta, in preghiera, alle parole di Geremia: i commentatori dicono che il salmista si sia ispirato proprio alle parole del profeta. Così l’uomo beato è colui che si distingue dai malvagi, non indugia sulla via del peccato, non conosce l’arroganza perché fa della sua lampada la legge del Signore nella quale trova gioia e che medita continuamente. Questo atteggiamento di fede permette all’uomo fede, all’uomo beato di sapere e sentire che il Signore veglia sul suo cammino.

                L’apostolo Paolo in questa prima lettera alla comunità di Corinto esprime con grande forza la fede nella risurrezione di Cristo dai morti: l’influenza della filosofia greca è grande per la comunità cristiana che vive in quella città greca, filosofia “che disprezzava il corpo e credeva solo nello spirito come costitutivo dell’uomo” (Commento della Bibbia liturgica, p. 1616). Il ragionamento presentato da Paolo è semplice, lineare e consequenziale: i morti risorgono, Cristo è risorto (e gli Apostoli, lui compreso, ne sono testimoni diretti) e dunque abbiamo speranza in Cristo non solo in questa vita, ma anche in quella eterna. In più Gesù risorto è definito “primizia di coloro che sono morti”; questo termine, primizia, evoca il Primo Testamento: “La preghiera che l’israelita doveva recitare nel tempio, quando presentava le primizie, era tutta piena di ricordi della liberazione dall’Egitto e della conquista della terra promessa nella quale scorrevano latte e miele. Paolo circonderà molte volte la morte e la risurrezione di Cristo di quest’ambiente pasquale, tutto impregnato dei ricordi della vera liberazione – dal peccato e dalla morte – portata da Cristo all’umanità prostrata” (Commento alla Bibbia liturgica, p. 1617).

Dopo la benedizione dell’uomo di fede annunciata da Geremia, dopo aver ribadito il fondamento di tale fede in Cristo risorto con la parola dell’Apostolo Paolo, ecco ora Gesù che nel Vangelo ci indica la direzione e l’orizzonte di fede: la via delle beatitudini. Il contesto delle parole del Signore è la pianura (a differenza della montagna per l’evangelista Matteo) e la cerchia dei Dodici, aumentata dalla folla de discepoli ai quali si rivolge, senza però escludere la “gran moltitudine di gente da tutta la Giudea, da Gerusalemme e dal litorale di Tiro e di Sidòne”. Le beatitudini proclamate da Gesù non sono i nuovi comandamenti, bensì “l’espressione della presenza di Dio (o del suo regno) nell’esistenza degli uomini” (Commento alla Bibbia liturgica, p. 1166): così i poveri sono beati non in sé, ma perché nella loro condizione possono più facilmente accogliere il mistero di Dio in Gesù e così essere arricchiti del regno di Dio; così anche gli affamati o i piangenti troveranno sazietà e consolazione, qui ed ora e un giorno nel compimento della promessa; così anche i perseguitati a causa della fede nel Figlio dell’uomo: “rallegratevi in quel giorno ed esultate perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo”. Al contrario, come in uno specchio rovesciato, i guai annunciati da Gesù riprendono in negativo le beatitudini: la libertà offerta dalla fede in Gesù può andare incontro al rifiuto; e questo rifiuto ha delle conseguenze qui annunciate. Così i ricchi non troveranno la consolazione che hanno già ricevuto, i già sazi non saranno sfamati, coloro che ridono non troveranno gioia, i “lodati” dagli uomini non troveranno altrettanta lode.

                La beatitudine annunciata da Gesù, pervasa in tutto il Vangelo (che, ricordiamo, significare proprio “buona notizia”), richiama alla gioia cristiana, nota fondamentale per la vita di fede. Il nostro caro don Albino in un messaggio per il centenario della Madonna del rosario di Pompei così scrisse:

Il Vangelo (però) racchiude tale forza da far prevalere, in chi lo vive sul serio, la gioia anche in mezzo alle prove della vita. Non per nulla la parola «Vangelo» significa «lieto annuncio». Santi dalla vita austera erano giocondi proprio perché santi. Vicino a Pompei è vissuto e morto ultranovantenne sant’Alfonso de’ Liguori: chi ha stampato la sua vita di recente ha potuto intitolarla così: Monsignore si diverte. Un altro libro si intitola Don Bosco che ride. Nell’elenco delle virtù cristiane figura l’eutrapelia, che consiste nel saper mettere brio, gaiezza e gioia nella vita comune, nella casa, durante i pasti. Al principio di questo secolo un prelato tedesco ha scritto il volume Mehr Freude («Più gioia»): vi si sosteneva che il cristianesimo deve sfruttare di più i tesori della gioia, che possiede, e riversarli con più abbondanza sul mondo: ogni cristiano dovrebbe essere diffusore, distributore, propagandista di gioia. La tesi del prelato è più attuale che mai in questa nostra civiltà consumistica, nella quale non ci si lascia mancare niente, ma si muore di noia, di sazietà e si moltiplicano contrasti dappertutto. Gioia ce n’è poca; è vero che i piaceri sono tanti e intensi; essi, però, si riducono, uno per uno, a brevissime parentesi di vita: prima della parentesi si pecca nel desiderare e nell’arrivare; dopo arrivati, si soffre per disgusto, rimorso, perdita di salute, di denaro e, soprattutto, per un frustrante vuoto, che spinge a nuovi desideri in base al principio: «dopo il pasto ho più fame di prima». Recitando il rosario, a un certo punto, noi ci rivolgiamo alla Madonna «causa nostrae laetitiae». Mettiamo tutto il cuore in questa vocazione. «Nella sua immensa bontà – ha detto il concilio – Maria si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora pellegrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni… Per questo è invocata dalla chiesa con i titoli di avvocata, ausiliatrice, soccorritrice, mediatrice» (LG n. 62).

(Per il centenario dell’immagine della Madonna del rosario di Pompei, 1 ottobre 1975, O.O. vol. 7 pagg. 177-178)

                Mai come in questo tempo è urgente recuperare questa nota fondamentale della gioia cristiana: una gioia fondata sul rapporto con Gesù, nostra gioia, e Maria, causa della nostra letizia. Che le parole, l’esempio e l’intercessione del Venerabile Albino Luciani ci aiutino in questa opera testimoniale.

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