Ciao, nonno Giuseppe!

Condivido le parole dell’omelia che ho letto nella celebrazione eucaristica delle esequie di nonno Giuseppe, ringraziando personalmente e a nome di tutta la mia famiglia tutti quelli che, in vario modo, si sono resi vicini personalmente e spiritualmente.

don Alessandro

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Omelia nelle esequie di nonno Giuseppe

Ferno, Chiesa Parrocchiale, lunedì 19 settembre 2016

(Letture: Sapienza 3, 1-9; Salmo 102; Giovanni 15, 1-17)

             Uno dei tanti doni dei quali il buon Dio aveva fornito nonno Giuseppe è stata l’arte del falegname: con le sua mani chissà quante cose ha costruito (mobili, giocattoli, arredamenti sacri, persino il calice della mia Prima Messa… addirittura diverse paia di scarpe, in particolare quelle di don Davide che ogni tanto arrivava e chiedeva di “metterci una toppa”).

            Nella prima lettura abbiamo ascoltato che “le anime dei giusti sono nelle mani di Dio”. Io non ho la pretesa di dire che nonno Giuseppe fosse un giusto secondo il mondo, ma certamente posso dire che è reso giusto dalla fede in quel Dio nel quale ha sperato e al quale si è affidato.

            Sempre nella prima lettura abbiamo ascoltato “in cambio di una breve pena riceveranno grandi benefici”: gli ultimi mesi di nonno Giuseppe sono stati una vera prova, oserei dire un vero Calvario, condiviso con pazienza, amore sacrificio e dedizione da tutti i suoi figli, i suoi nipoti, i suoi generi e sua nuora. Non è stato facile accettare che altre mani si prendessero cura di lui, mani amorevoli che lui stesso ha contribuito a crescere: credo che questo abbia alleviato la sofferenza, il dolore e la mortificazione del veder venir meno le forze.

            Ora la fede ci invita a credere e a sentire che la sua vita è compiuta proprio nelle mani del Padre, quel Padre che nonno Giuseppe ha conosciuto fin da piccolo e che lui stesso, nella sua vita semplice e laboriosa, ci ha testimoniato.

            Le mani di nonno Giuseppe si sono prese cura per tanti anni della sua vigna: andava fiero della sua uva, un’uva speciale perché bianca e, insieme, dolce ed aspra. In questi ultimi giorni nonno Giuseppe ha voluto vendemmiare la sua vigna, dando indicazioni precise per la raccolta e la distribuzione dei grappoli. Anche il Vangelo ci parla di una vigna, di una vite: questa volta però è Gesù che si prende cura di noi, della nostra vita, e noi siamo invitati a riconoscere di essere i suoi tralci. Rileggendo ancora una volta le parole di Gesù “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” le ho trovate ancora una volta di una forza e di una chiarezza che fa quasi timore: esse dicono che Gesù da tutto se stesso per noi, per la nostra gioia piena, per la nostra realizzazione, perché impariamo da lui ad amarci e ad accoglierci come Lui.

            La vita di nonno Giuseppe la affidiamo tutta al Signore, proprio come un tralcio buono della sua stessa vite: noi lo abbiamo conosciuto e ringraziamo Gesù per avercelo donato; ora lo lasciamo andare perché ritorni a Lui e incontri di nuovo nonna Dorina e tutti i suoi cari.

            Nonno Giuseppe è morto il 17 settembre, quando nella liturgia ambrosiana si fa memoria di San Satiro, fratello di Sant’Ambrogio e suo collaboratore, patrono dei sacristi.

          Ho trovato un brano che, in conclusione, vorrei consegnarvi come testamento: sono state, per me, la descrizione di questi mesi e l’eredità che mio nonno mi lascia e, credo, lascia a tutti noi.

Era già sera tarda e don Camillo stava dandosi da fare nella chiesa deserta. Aveva rizzata una scaletta sull’ultimo gradino dell’altare. Nel legno di un braccio della croce si era aperta una crepa, lungo la venatura, e don Camillo, stuccata la crepa, stava ora tingendo con un po’ di vernice il gesso bianco della stuccatura. Ad un tratto sospirò, e il Cristo gli parlò sommesso.

“Cos’hai, don Camillo? Da qualche giorno mi sembri affaticato. Ti senti poco bene? Che sia un po’ d’influenza?”

“No, Gesù”, confessò senza alzare la testa don Camillo. “È paura.” “Tu hai paura? E di che mai?”

“Non lo so: se sapessi di che cosa ho paura non avrei più paura” rispose don Camillo. “C’è qualcosa che non va, qualcosa sospeso nell’aria, qualcosa da cui non posso difendermi. Venti uomini che mi aggrediscono con lo schioppo in pugno non mi fanno paura: mi seccano perché sono venti e io sono solo e senza schioppo. Se io mi trovo in mezzo al mare e non so nuotare penso: fra un minuto affogherò come un pulcino. E allora, mi dispiace molto, ma non provo paura. Quando su un pericolo si può ragionare non si prova paura. La paura è per i pericoli che si sentono ma non si conoscono. È come se camminassi a occhi bendati su una strada sconosciuta. Brutta faccenda.”

“Non hai più fede nel tuo Dio, don Camillo?”

“Da mihi animam, caetera tolle. L’anima è di Dio, i corpi sono della terra. La fede è grande, ma questa è una paura fisica. La mia fede può essere immensa, ma se sto dieci giorni senza bere, ho sete. La fede consiste nel sopportare questa sete accettandola a cuore sereno come una prova impostaci da Dio. Gesù, io sono pronto a sopportare mille paure come questa per amor vostro. Però ho paura.” Il Cristo sorrise. “Mi disprezzate?”

“No, don Camillo, se tu non avessi paura, che valore avrebbe il tuo coraggio?”.

(Giovannino Guareschi, La paura continua in Id., Mondo piccolo. Don Camillo, Milano, Rizzoli & C., marzo 1948, pp. 312-313)

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